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Lo sport in rosa
Sara Gama (Photo Matteo Ciambelli/ Insidefoto)

Le donne nello sport: il professionismo nel calcio femminile

Dal 1° luglio 2022 si aprono le porte del professionismo per le calciatrici italiane. Ludovica Mantovani (FIGC): «Conquista storica, ma c’è ancora molto lavoro da fare».

Lo sport è un atto pratico di democrazia. Un’affermazione forte ma che vale senz’altro per quanto riguarda lo sport passivo, quello da “spettatore”, per intendere.  Chiunque infatti, senza distinzioni di genere, classe o etnia può seguire una qualsiasi disciplina sportiva dal proprio divano, così come andare in stadi, palazzetti, velodromi o in altri luoghi designati per le competizioni a sostenere la propria squadra o i propri idoli sportivi. L’affermazione inizia a vacillare però quando si entra nello sport attivo, anche a livello amatoriale.

Come riporta l’edizione 2022 dell’Osservatorio sullo Sport System sono 15,5 milioni gli italiani che praticano attivamente sport ma suddividendo tra i generi si riscontra una netta discrepanza: la componente maschile pesa per il 63% del totale, mentre quella femminile si limita al restante 37% che, tradotto in valori assoluti, equivale a 5,8 milioni di donne maggiorenni che praticano almeno uno tra i 10 principali sport in Italia.

Un numero che non deve trarre in inganno perché si tratta solo di 2 donne su 10 della popolazione femminile adulta, esattamente la metà della controparte maschile: sono infatti 4 su 10 gli uomini maggiorenni che praticano almeno uno tra i 10 principali sport.

Un altro dato rilevante riguarda l’abbandono della pratica sportiva che, stando alle rilevazioni per la popolazione femminile avviene dopo i 34 anni mentre, tra gli uomini questo fenomeno avviene mediamente 20 anni dopo, attorno ai 54 anni.

L’identikit della sportiva

Tracciando l’identikit delle sportive italiane emerge un profilo che porta con sé numerosi aspetti: come spesso avviene sport fa rima con benessere e dunque il 41% delle sportive italiane preferisce cibi light e il 35% controlla quotidianamente il proprio apporto calorico; le sportive italiane fanno regolarmente esercizio almeno una volta a settimana nel 65% dei casi, il 63% tiene alla propria forma fisica e il 62% all’aspetto.

Non a caso il 69% utilizza prodotti cosmetici per sentirsi meglio.

Il dato più rilevante riguarda però gli aspetti extra-sportivi: il 39% ama le sfide, il 43% si ritiene carismatica e persuasiva mentre addirittura il 58% delle sportiveritiene che il proprio contributo possa essere determinante per la costruzione del futuro, anche in ottica collettiva.

 Calcio al femminile: un connubio possibile

Tornando all’affermazione iniziale, se è vero che ogni sport può essere seguito da chiunque, a livello di pratica sportiva per molto tempo sono esistite distinzioni di genere nette. Ne è esempio emblematico lo sport che più appassiona gli italiani da generazioni e generazioni, ossia il calcio.

Uno sport che è popolare per definizione, considerato che non servono grandi mezzi se non impegno e la giusta dose di talento. Proprio per questo è giocato in tutto il mondo ma, nella pratica, dai campetti di periferia sino agli stadi, dalle partitelle tra amici, sino alla Serie A, è appannaggio quasi esclusivamente maschile.

Un’egemonia culturale così forte dal diventare uno status quo assodato anche se, negli ultimi anni, ha iniziato a subire una notevole inversione di tendenza. Dati alla mano, le atlete tesserate in FIGC nel 2011 si assestavano su quota 10mila mentre nel 2020 il numero è pressoché triplicato, superando 31mila atlete. Di rilievo è anche la progressività dell’aumento delle tesserate: il tasso di crescita annuo è infatti a doppia cifra, pari al 12,37%, chiaro segno di una passione che si sta diffondendo sempre più e che è destinata a crescere ancora grazie a una pietra miliare da poco raggiunta.

Con la fatidica data del 1° luglio le calciatrici della Serie A femminile sono ufficialmente atlete professioniste, al pari dei loro colleghi maschi.

Il cammino verso il professionismo

Un traguardo figlio di un percorso lungo che Federcalcio e club hanno costruito insieme e per lungo tempo. Ripercorrendo per sommi capi la storia del calcio femminile in Italia bisogna partire dal lontano 1968, anno in cui nasce la Fic, Federazione Italiana Calcio Femminile che viene tuttavia incorporata nella Lega Nazionale dilettanti solo nel 1986. Per un’altra data storica occorre fare un balzo in avanti fino al 2015 quando la FIGC avvia il processo di integrazione tra professionismo maschile e attività calcistica femminile disponendo per i club maschili delle due massime serie, l’istituzione di una squadra femminile under 12 con almeno 20 calciatrici.

A queste si aggiungeranno poi le squadre Under 15 e Under 17.

Altro passaggio fondamentale avviene nella stagione 2017-2018 quando ai club maschili viene permesso l’acquisto del titolo sportivo (partecipazioni di controllo) di una società di calcio femminile affiliata alla FIGC nei Campionati di Serie A o B, o concludere accordi di licenza con le società affiliate alla FIGC partecipanti a Serie A o B con sede nella stessa provincia.

E si arriva all’attualità, al momento della svolta, con il riconoscimento del professionismo nel calcio femminile; prima disciplina in Italia a essere riconosciuta come tale.

Professionismo, cosa cambia per atlete e club

Quella che la Presidente del Consiglio Direttivo della Divisione Femminile della FIGC, Ludovica Mantovani, definisce senza esitazioni “una grandissima conquista” comporta con sé molteplici cambiamenti per atlete e club.

Le calciatrici potranno godere di contratti veri e propri che, oltre a un salario minimo di 26.000 euro lordi senza alcun tetto massimo, comporta tutele legali e sanitarie, come l’accesso alla maternità e il versamento dei contributi previdenziali nel Fondo Pensione Sportivi Professionisti, istituito presso L’Inps.

In estrema sintesi: viene riconosciuto ufficialmente il mestiere della calciatrice.

Per i club l’impatto non è da poco: se da una parte è innegabile che le atlete diventano un vero e proprio asset con il contratto professionistico che ne garantirà la titolarità e permetterà di aprire vere e proprie sessioni di calciomercato, grazie anche al decadimento del vincolo sportivo, sul versante economico si prevede un aumento dei costi di gestione societari più che raddoppiato che potrebbe raggiungere picchi anche del 60% se non 80% in più.

Le società dovranno infatti adottare la forma di società di capitali, versare una fideiussione di 80.000 euro e rinnovare le proprie strutture garantendo un impianto sportivo con almeno 500 posti.

La Serie A femminile e l’Europa

La conquista raggiunta dal calcio femminile in Italia non è un esempio isolato nel mondo ma in Europa può sicuramente offrire un modello da studiare. Paesi come la Spagna dove il calcio ha lo stesso appeal – se non superiore – dell’Italia, è stata adottata una via diversa, come spiega Pedro Malabia Sanchis Director de Fútbol Femenino de La Liga. Alle calciatrici è stato concesso lo status giuridico di atlete professioniste e la massima competizione è stata demandata ai club che hanno realizzato una nuova entità, la lega professionistica, per gestirne l’organizzazione.

Discorso analogo è stato fatto in Svezia mentre in Inghilterra l’apertura al professionismo femminile è avvenuta nella stagione sportiva 2018/19. Proprio qualche anno di pregresso offre la possibilità di ipotizzare quanto avverrà in Italia nel medio termine.

I club di calcio femminile della Premier League generano ricavi superiori alle società italiane con una media che supera 1,4 milioni di euro contro i 900 mila euro dei team tricolori. Di pari passo è più consistente il costo del personale che, oltremanica pesa in media 1 milione di euro sui bilanci societari e si traduce in uno stipendio medio per le atlete di 50.000 euro contro l’attuale stipendio medio delle calciatrici tricolore di 18.333 euro.

Calcio e Volley

Tornando nei confini nazionali è di interesse una comparazione con uno tra gli sport più praticati dalla popolazione femminile italiana, il volley anch’esso dilettantistico. La FIPAV annovera infatti oltre 250.000 atlete che valgono oltre il 70% dei tesserati complessivi della Federazione della pallavolo. I ricavi medi generati dalle società di pallavolo si assestano sui 2 milioni di euro e risultano superiori ai ricavi medi dei club calcistici del 122%.

Questo maggior livello di ricavi si traduce in un maggior costo medio per gli stipendi: la differenza, tra la Serie A1 di volley e la Serie A di calcio femminile è di circa 3,5 volte, con lo stipendio medio di una pallavolista di Serie A1 che raggiunge 100.000 euro ed è oltre 5 volte superiore rispetto allo stipendio percepito da una calciatrice.

Un gap consistente ma che potrebbe andare via via assottigliandosi con l’aumento delle praticanti e ancor più degli spettatori del calcio femminile. Il calcio femminile è infatti in una fase di “investimento” nella quale sarà determinante far crescere l’appeal per incrementare i ricavi dei club e dunque i compensi per le giocatrici, al fine di innescare un meccanismo virtuoso che porti le bambine di oggi e delle generazioni future a scegliere il calcio come proprio sport dopo aver visto giocare le calciatrici di oggi, le prime a entrare nell’era del professionismo.

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